Silvana Cellucci

L'uomo di carta

Presentazione di Simone Gambacorta

Tabula fati, Chieti, Maggio 2005

 

Presentazione di Simone Gambacorta

     Quando sfoglio un libro di Silvana Cellucci provo stupore per la sua prolificità di scrittrice, per la sua inesauribile istanza creativa. A volte mi sono sorpreso a pensare che il suo nome nasconda un arcano, che celi un mistero, che copra una sorta di fantasma buono sempre pronto a raccontare storie.
     Così ecco questo nuovo romanzo: agile, svelto, disinvolto nella forma, giocato su cambiamenti di fronte e soprattutto imperniato sull’assenza di pace. Fra queste pagine, infatti, la pace non c’è: le vicissitudini dei personaggi che le abitano e l’incalzare degli eventi che vi accadono la negano. L’insieme è mosso da smottamenti e sbandate, né manca di dolore e angoscia.
     Per Silvana Cellucci la vita non è un gioco, tantomeno innocente. La magredine umana s’insinua dentro e fuori, sopra e sotto. Anche l’amore è un enigma di ombre e anfratti, di cunicoli e connivenze in bilico tra desiderio e illusione. Senza dimenticare la colpa e la morte, echi di un travaglio esistenziale nutrito da dilemmi e interrogazioni.
     Ma vorrei sottolineare due punti in particolare.
     Il primo riguarda il viaggio-incubo: in questo romanzo l’idea di viaggio (con tutte le implicazioni metaforiche che introduce) occupa un posto di primo piano. È un viaggio dove piovono confusione, paura, imprevisto, ansia, dubbio, fuga.
     Un viaggio nella notte, non al termine della notte (si passi l’accostamento, di cui non ignoro l’improponibilità), che proietta una dimensione d’incubo, con i personaggi colti a dibattersi nei vagoni del destino mentre il destino scorre lungo i binari dell’amore e della morte. È forse per questo che i personaggi di Silvana Cellucci, nei loro legami e nelle loro complicità, hanno la febbre alta, febbre che è tensione, elettricità, scossa. Si parlano, si sfogano, si rubano l’uno all’altro. Il vortice è in loro e li condiziona, li sospinge, li condanna.
     Fra le brume della coscienza e della contraddizione, fra le strettoie e i nodi scorsoi dei respiri in affanno, fra speranze che inseguono una sintesi lontana, le cose si complicano in un crocevia di moti diversi eppure vicini. Il mosaico ha molte tessere, è complicato, è complesso: come l’incubo, che è complesso perché l’uomo è complesso, sfaccettato, labirintico.
     Al viaggio-incubo si collega in qualche modo l’altro punto che vorrei indicare: l’amore come estrema frontiera delle possibilità umane.
     In questo romanzo l’amore è una meta difficile da raggiungere, non perché manchino i sentimenti, ma perché questi confliggono con le circostanze sfavorevoli, slittano sul ghiaccio delle avversità e per ciò faticano a tradursi in fatto.
     Silvana Cellucci pare voler tracciare una sottile distinzione tra la verità sentimentale, cioè il provare sentimenti per una persona, e la realtà sentimentale, ossia la condizione di piena libertà in cui vivere effettivamente e stabilmente i sentimenti per una persona.
     L’amore talvolta diventa l’estrema frontiera delle possibilità umane perché prima di affermarsi come realtà può esigere il ricorso a una moltitudine di risorse e di scommesse.
     Il presupposto del sentimento, della verità, non è detto basti a estrinsecare l’amore nella sua totalità, a svilupparlo in realtà, a consacrarlo in latitudine di vivibilità. Talora, piuttosto, occorre che chi ama non si risparmi, al di là degli argini, delle insidie e delle trappole che la vita — nelle sue combinatorie alchimie dove si confondono causalità e casualità — riserva. Ma anche al di là del facile giudizio. E tuttavia nulla esclude che d’improvviso la verità sentimentale si riveli fallace, smentisca se stessa e inneschi l’implosione della realtà sentimentale. Nella giostra degli uomini, d’altronde, è così: non si sa mai.

Simone Gambacorta