Gabriele Tristano Oppo

Barbarella

Il grande romanzo d'amore
di Barbara Leoni e Gabriele d'Annunzio

Presentazione di Franco Di Tizio

Tabula fati, Chieti, Maggio 2004

 

Presentazione di Franco Di Tizio

     Sin dal 1935, anno in cui Mario Guabello pubblicò il riassunto delle lettere che d’Annunzio, tra il 1887 ed il 1892, inviò a Barbara Leoni, l’interesse dei biografi dannunziani si polarizzò su questa relazione, ritenendola la più importante del Poeta. Dopo la pubblicazione di molte epistole integrali, l’attenzione, non solo dei dannunzianisti, si soffermò su quella misteriosa donna, definita La bella romana. Nel 1987, infatti, il regista Sergio Nasca realizzò un film, dal titolo D’Annunzio, dove raccontò la storia di quel violento e trasgressivo amore, sul quale il Poeta riversò, nel seducente corpo di Barbara, le sfrenate fantasie erotiche, che avrebbero lasciato tracce indelebili nei suoi scritti più famosi. La Leoni attirò anche l’attenzione della scrittrice Dacia Maraini, la quale, traendo spunto da alcune lettere inedite di D’Annunzio, scrisse un’opera teatrale, Lettere d’amore, che fece il suo debutto al Festival Nazionale Teatro di Gioia Vecchio nell’agosto del 2001 e che fu, poi, rappresentata al Festival di Radicandoli e al Teatro dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Dopo una traduzione e una pubblicazione in inglese, altre rappresentazioni vi furono a Chicago, a San Francisco e a Los Angeles. La storia d’amore tra Gabriele e Barbara varcò così i confini nazionali! Una relazione così importante non poteva sfuggire a Gabriele Tristano Oppo, poeta e romanziere, che in molte opere si è occupato di personaggi femminili. Le sue poesie de Il tuo essere donna (Poggibonsi 1988), e i romanzi Storie di genetica ambiguità (Solfanelli, Chieti 1992), Poker di donne (Tabula fati, Chieti 1997), Il rischio di amare (Tabula fati, Chieti 1998), Una donna tra due divise (Chieti, Tabula fati, 2002) testimoniano come lo scrittore abbia una predilezione nell’indagare l’animo femminile e nell’esplorare la sua intimità.
     In questo libro Barbarella. Il grande romanzo d’amore di Barbara Leoni e Gabriele D’Annunzio, l’autore ha compiuto una vera e propria opera d’arte. Non solo ha scritto un romanzo di estremo interesse letterario ma ha corredato il testo con una documentazione meticolosa e precisa. Ne deriva che tale lavoro, più che una vicenda romanzata, può considerarsi un vero e proprio romanzo storico, dove viene tracciata una brillante sceneggiatura. Il testo, infatti, con i suoi dialoghi, di cui molti in dialetto romanesco, è già pronto per la realizzazione di un lavoro cinematografico.
     Natalia Elvira Fraternali, chiamata da D’Annunzio, sin dai primi incontri amorosi, Barbara o Barbarella, era nata a Roma il 26 dicembre 1862 da Nicola e da Angela Pellicciari. Quand’ella nacque, la madre, che già in precedenza aveva dato alla luce quattro figli, si accingeva a compiere quarantasei anni. Delle cinque nascite, si salvarono soltanto Teresa, un fratello e lei. Teresa, più anziana di sei anni, aveva sposato un giovane piemontese e, nella nuova casa, ospitava frequentemente la sorella, che, graziosa ed intelligente oltre che dotata di una bella voce, riscuoteva molta simpatia da parte del cognato. Fu lui che la mandò a studiare al Conservatorio di Milano. Elvira, però, sin dagli anni dell’adolescenza portava con sé, inconsciamente, quel fascino invincibile che scatenava improvvise passioni nel cuore degli uomini. Il primo a subire tale seduzione fu un amico di famiglia, un avvocato già sposato. Assediata, in seguito, da uno stuolo di ammiratori e presa da un vago presentimento di pericolo, allo scopo di salvaguardarsi, aveva troncato gli studi del Conservatorio, che l’avrebbero certamente avviata a una carriera artistica eccellente. Il primo vero amore — secondo Oppo — fu un certo Puccio; però la ragazza, senza tante riflessioni, per non scontentare i genitori, accettò la proposta di matrimonio del conte Leoni. Elvira, quindi, il 2 febbraio 1884, all’età di ventuno anni, sposò il trentenne bolognese Ercole Leoni. Dopo il matrimonio, dovette abbandonare la casa paterna di Roma per trasferirsi a Milano dove lavorava il marito. Era, però, appena trascorso un anno in questa nuova città che fu presa dalla nostalgia per la sua Roma. Non sappiamo se fu la delusione della nuova metropoli o, forse, la repulsione fisica verso il coniuge, sopraggiunta a seguito di un aborto, che l’aveva costretta a chiedere ed ottenere dal marito di trasferire la residenza nuovamente nella Capitale. L’Oppo, invece, ci racconta nei minimi particolari come andarono i fatti. Barbara, approfittando dell’assenza del marito, che si trovava in Campania, si fece visitare da un medico, il quale le riferì: «la notizia che debbo darvi non è bella… L’arrossamento e il tipo di secrezione che ho riscontrato nei vostri genitali denunciano chiaramente un’infezione che noi chiamiamo “blenorragia”». E così Elvira venne a conoscenza che nei rapporti intimi col marito, il quale era solito frequentare donne di malaffare, aveva contratto una grave infezione, la quale era stata alla base del suo aborto.
      Secondo Mario Guabello, Ercole Leoni era una «persona dotata intellettualmente, fisicamente, e provvista di beni di fortuna», ma Oppo, invece, appurò che il giovane non era affatto un conte; anzi, in una lettera anonima a Barbara, si legge: «Il signor Leoni frequenta un giro di persone non certo cristalline, dissipa i suoi quattrini in acquisti futili, grandi cene con gli amici e — cosa ancor più disdicevole — con le donnine allegre delle case di tolleranza».
     L’impossibilità di avere altre gravidanze e l’incompatibilità caratteriale col consorte rendevano il matrimonio sempre più in crisi e non vi è da stupirsi se il 2 aprile 1887, dopo il concerto tenutosi al Circolo Artistico di Via Margutta, seguito da un corteggiamento serrato da parte di d’Annunzio, la donna avesse ceduto alle lusinghe del raffinato ammiratore. Dopo il primo bacio, che avvenne il 4 aprile, Elvira si arrese rapidamente e tutte le sue aspirazioni tradite dall’infausto matrimonio col conte bolognese si placarono. Barbara era bella e provocante; dotata di viva sensibilità poetica e di una piacevole vena di follia, ella si prestò stupendamente ai giochi erotici del Poeta. Interessante è la descrizione che Oppo fa dei due amanti, allorquando festeggiarono in casa di Gabriele il 2 aprile 1888, giorno di Pasqua, il primo anniversario del loro incontro: «Quando lei arrivò, Gabriele la coprì di baci. “Sii savio, Gabri…. Lascia almeno che mi tolga gli abiti di dosso…” Ma lui non l’ascoltò: la trascinò sul letto e la possedette furiosamente; così com’era, in un impeto di passione cieca. Barbara, che ormai era avvezza a quelle manifestazioni di subitaneo e irrefrenabile desiderio sensuale di lui, si abbandonò tra le sue braccia felice, in fondo, di quell’ardore che dimostrava con quanta forza Gabriele l’amasse». Così come è interessante, dopo qualche pagina, il monologo dove il Poeta si domanda con terrore se Barbarella avesse davvero provato piacere tutte le volte che era stata con lui. D’Annunzio, poi, giunge alla conclusione: «Non è possibile che si sacrifichi a volte alla mia irruenza senza affatto desiderarmi?»
     Di estremo interesse è il capitolo secondo del libro terzo ove è descritta, col titolo L’ardore dell’estate, la loro permanenza all’eremo di San Vito Chietino durante l’estate 1889. Finalmente insieme, Gabriele e Barbara conobbero lunghe giornate di felicità. La famiglia di Zi’ Cicco li accudiva e assisteva alle loro ebbrezze, tutte trasfuse più tardi nel Trionfo della Morte, con gli amplessi favolosi e gli episodi di cronaca più realistici, come l’annegamento di un povero ragazzo e il pianto della madre.
     Nel 1890, durante il servizio militare del Poeta a Roma, i due amanti s’incontrarono spesso nel piccolo appartamento di Via Piemonte 1. Barbara, a fine ottobre, cominciò a lamentare disturbi vaginali e la malattia non migliorò nemmeno qualche settimana dopo. Barbara fu, quindi, costretta a farsi operare in casa dal dottor Giulio Caccialupi. Oppo a tal’uopo è particolarmente dettagliato: «Il dottor Caccialupi, che aveva in cura Barbara, aveva consigliato di intervenire più energicamente al fine di rimuovere dai suoi organi genitali la causa dei prolungati malesseri: era necessario, aveva detto, ricorrere ad un “raschiamento uterino” per ottenere una guarigione definitiva. E l’intervento fu fissato per il 6 dicembre, in casa di Barbara: Gabriele, reso audace dalla gravità dell’evento, decise di presentarsi ai genitori di lei chiedendo loro il permesso di starle vicino e assisterla nel migliore dei modi. Incredibile a dirsi, il sor Nicola e la sora Angiola gli aprirono la porta di casa, concedendogli di stare accanto al capezzale di Barbara.»
     Nel 1891 Gabriele si stabilì a Francavilla al Mare nel Convento di Michetti e da lì il 19 maggio scrisse a Barbara un’importante lettera ben evidenziata dall’Oppo: «Ti ricordi quando tu stavi diritta, appoggiata ai braccioli della gran poltrona, e io stavo sotto di te, con la mia testa fra l’una e l’altra coscia e con la mia bocca attaccata avidamente alla rosa che ardeva e m’inumidiva il mento d’un umore acre e inebriante?…E quando tu mi avevi data tutta la vita, allora io ti distendevo sul divano e in ginocchio ti possedevo guardando il moto voluttuoso del tuo ventre e dei tuoi fianchi. La rosa, ardentissima, pareva suggermi alla sua volta, mi stringeva come una bocca; e a me pareva di giungerti fino al cuore.» Il Poeta, poi, si trasferì a Napoli, dove, il 9 novembre, dopo aver soggiornato per tre mesi all’Hotel du Vésuve, prese in affitto un appartamento a Mergellina, in Corso Umberto 9. In quel periodo una lettera anonima informò Barbara delle imprese napoletane di Gabriele e dell’apparizione, nella sua vita, di una nuova immagine femminile. Angosciata, Barbara accettò un invito ad Albano, nel solito albergo, dove i due passarono l’estate di San Martino.
     All’inizio dell’anno 1892, la Leoni, sebbene fosse al corrente dell’interesse di D’Annunzio per la contessa Maria Gravina, cercò ugualmente di salvare la loro unione. Così il 2 aprile, per festeggiare il quinto anniversario del loro incontro, si riunirono nella casa di Mergellina; Barbara, però, dopo due giorni, partì amareggiata. Non solo aveva scoperto in casa dell’amico un biglietto della Gravina, ma aveva saputo che le aveva dedicato L’Innocente.
     Nelle lettere a Barbara, che andavano diradandosi, la lussuria lasciava il posto a più quieti ragionamenti nei quali il Poeta proponeva all’amante di lasciarsi promuovere al rango e alla funzione di sorella. Il 13 novembre Barbara avvertì Gabriele di essere al corrente della verità. Venuto a conoscenza che Barbara sapeva tutto, Gabriele si decise finalmente a scriverle che, avendo ingravidato la Cruyllas, non poteva, da gentiluomo, abbandonarla. Si chiudeva così la loro storia d’amore. Barbara, incapace di staccarsi da quel mondo di artisti in cui era entrata grazie a D’Annunzio, non tornò col marito ma andò a vivere con il pittore viennese Emil Fuchs nel pittoresco ambiente di Villa Strohl-Fern, dove sentì il bisogno di adottare una bambina, da tutti creduta frutto del nuovo legame.
     La Villa Strohl-Fern di Roma era stata costruita da uno strano mecenate di artisti, l’alsaziano Alfredo Strohl, che l’aveva messa a disposizione dei pittori e degli scultori che vivevano a Roma. Emil Fuchs, autore della famosa Martire cristiana, era un austriaco venuto a Roma con una pensione del suo governo. Giovane, alto, bruno con una barba nerissima, era un tipo piuttosto meridionale. Alla Villa egli aveva un ampio studio nel primo viale a sinistra ed alloggiava in comunione con Barbara Leoni. Nemmeno questa unione funzionò a lungo; il Fuchs, infatti, nel 1905 si trasferì in America, e lì morì suicida il 13 gennaio 1929, data messa in evidenza da Oppo per la prima volta in questo romanzo. Nel 1907 Barbara scrisse a D’Annunzio per chiedergli in dono un libro. Il Poeta le rispose affettuosamente dalla Capponcina. Ella, dopo la partenza del suo nuovo compagno, si era rifugiata a Pesaro, in seno alla famiglia d’origine, dove, però, nel 1908, perse entrambi i genitori. Tornata a Roma cercò di appartarsi, per quanto possibile, coltivando alcuni cari e vecchi amici fra cui Adolfo de Bosis e, particolarmente Diego Angeli. Abbandonata dalla figlia adottiva, Adriana Nivi, che aveva scoperto la sua vera origine, si ritirò ancora più nell’ombra, cercando di consolare la tristezza della solitudine, dedicandosi a pratiche religiose e ad opere benefiche. Conobbe allora S.E. Alessandro Salviati, già Imperiale Consigliere di Stato e Console generale di Russia, uomo integro e di vasta cultura, che era lo zio di Pietro Paolo Trompeo, il famoso professore di francese all’Università di Roma. La Leoni, intanto, scrisse qualche volta a D’Annunzio, dandogli del Voi. L’ultima volta che gli inviò una lettera fu nel 1915, quando il Poeta da Parigi tornò a Roma per battersi a favore dell’intervento. Gli chiese di essere utilizzata in opere di assistenza ma il Poeta non le rispose. A tal proposito Oppo ci precisa Barbara, quando apprese dalla stampa che D’Annunzio avrebbe parlato al popolo romano dal balcone del Campidoglio, decise di andare ad ascoltarlo. Scrive il romanziere: «Così la sera del 13 maggio 1915, Elvira confusa tra una folla strabocchevole, riuscì a piazzarsi in prossimità del palco e quando lui comparve ebbe modo di osservarlo a lungo, con malinconica curiosità. Mio Dio, quanto è cambiato! pensò quando lo vide. È proprio lui il mio Gabriele di ventitré anni fa? È questo l’uomo che ho amato per cinque anni?»
     Il Salviati si spense a Roma il 12 giugno 1934. Fu appunto lui, poche settimane prima della morte, a rendere possibile la vendita dell’epistolario dannunziano di Barbara a Guabello. Non sappiamo se furono le necessità economiche o l’idea di lasciare un’impronta di sé nella vita terrena ma è certo che la Leoni, nel 1934, allorquando d’Annunzio era all’apice della notorietà, decise di vendere tutte le lettere e i documenti che le erano rimasti del suo grande amore. Sui motivi della vendita l’Oppo è categorico. Elvira, infatti, così confida a Sacha, suo amico: «Non avrei voluto dirtelo, ma è giusto che lo sappia: è solo una questione di quattrini… sto per dar fondo agli ultimi risparmi e poiché non so per quanto tempo ancora Dio mi concederà di vivere mi sono posta il problema di come potrò andare avanti…». La vendita avvenne per interposta persona e con la raccomandazione che mai fosse rivelato il suo vero nome. L’acquirente fu Mario Guabello, l’industriale biellese che da qualche tempo andava raccogliendo e pubblicando materiale dannunziano. La Leoni gli cedette tutte le sue reliquie e cercò in ogni modo di nascondere la sua identità; ci riuscì fino a quando il perspicace industriale biellese non la rintracciò grazie alla parola “Leoni” citata nella lettera di D’Annunzio del 30 giugno 1889. Quando nel 1935 Guabello si accingeva a mettere sul mercato fascicoli e volumi dal titolo Barbara la bella romana. Il grande amore di Gabriele d’Annunzio, il Poeta, che in quel periodo stava scrivendo il Libro Segreto, fu quasi costretto a nominare il nome di Barbara Leoni.
     Dopo la scomparsa del Saviati, Barbara decise di ritirarsi nella zona del Nomentano, in un pensionato annesso al Conservatorio di Sant’Eufemia, tenuto dalle suore del Preziosissimo Sangue.
     Il compianto amico Mario Vecchioni, in un libro pubblicato nel 1982, I miei incontri con dannunziani, ricordò un lungo dialogo con la Leoni in quel pensionato: «Una volta Guabello mi condusse dalla Leoni, mi presentò e, dopo qualche convenevole, si congedò. Volevo vedere, con la segreta speranza di essere più fortunato, l’unico cimelio negato alla vendita: una grande fotografia di Barbara ventottenne, nuda, con i capelli che le arrivavano alle ginocchia; incollata su un cartone, negli spazi liberi, il ventisettenne amante aveva scritto una lirica erotica. Non volevo prolungare la visita oltre venti-trenta minuti; mi trattenni quattro-cinque ore.»
     L’interesse dei critici e la curiosità dei biografi non cessarono intorno a Barbarella, la quale, come precisa l’Oppo nella premessa al libro, morì alle 12.10 di mercoledì 6 aprile 1949 a Roma in Via Antonio Guattani 17, ospite delle suore del Preziosissimo Sangue.
     Sepolta al Verano, nel 1959, esattamente dieci anni dopo, come imponeva la legge, i suoi resti mortali furono rimossi dal riquadro 116 per essere dispersi nell’ossario comune. Fortunatamente fu aperta una sottoscrizione tra una ristretta cerchia di dannunzianisti; e, così, Elvira Fraternali riposa ora nel loculo distinto con il n. 89 nella seconda fila del perimetro del riquadro n. 69.
     Nel 1996, sul Numero Unico dell’Eremo dannunziano, lanciammo l’idea di una possibile traslazione delle sue spoglie da Roma a San Vito Chietino. La nostra idea fu, subito, ben accolta dagli anacoreti dell’Eremo, in particolare dal notaio Fernando De Rosa, il quale ha lottato contro le pastoie burocratiche, e, oggi, dopo tante peripezie, la data del trasferimento della salma da Roma a San Vito Chietino sembra ormai vicina. Ed è con l’augurio che la Leoni possa riposare presto nell’Eremo dannunziano che Oppo chiude la sua opera letteraria: una meticolosa biografia di Barbara Leoni, magistralmente romanzata dalla sua fervida fantasia.

Franco Di Tizio