Entrare in amicizia con le proprie fragilità è forse la risposta più consona ad una condizione umana intaccata da una tecnologia così evoluta da prendere il sopravvento sulle persone fino a privarle del desiderio di esistere. Questo almeno è quanto sosteneva Miguel Benasyag nel suo saggio Funzionare o esistere? e a cui pare fare eco e da lì svilupparsi il tema conduttore di questa Vita naturale di Vito Bruno. Quando “C’è da convertirsi ogni giorno / sintonizzarsi sulle circostanze quotidiane / riprogrammare calendari, propositi e obiettivi / aggiornare interessi, concetti e linguaggi / morti e vivi / adattarsi / con uno sforzo di volontà a volte perfino / annullarsi”; quando si è costretti finanche a uscire anche dalla Storia, allora non resta che recuperare una “vita naturale”: aspettare la notte, guardare il mare, riscoprire l’ironia, ritrovare la memoria, osare d’avere il mondo contro, provare a distinguere il nulla dal niente, portare in piazza la propria morte come segno di rivolta, cercare una musica che, come nell’opera, dia senso e forma alle proprie azioni.
Un fatto evidentissimo nella poesia di Bruno è la perfetta corrispondenza tra l’io poetico e quello biografico, ed è un io dolente, lento, che va fiero della solitudine «conquistata pezzo a pezzo». Si può dire che essenzialmente egli assegni alla poesia il compito di dar vita all’io più vero.