Scrivere a volte è rompere una rassegnazione che rattrappisce. È andare a prendersi un gusto della vita: continuare a voler capire.
Poiché nel momento affiorante ci si sente dentro una compagnia di amici dispersi, sperimentati ma soprattutto interiori, che urgono dentro: esigono qualche voce e anche il semplice bisogno di rinominarsi.
Si è acciuffata l’eco di un’espressione, anche antica, che ci ha lasciato quasi una scossa, una marcia ingranata per ripartire su un sentiero intravisto.
È come se si vedesse qualcos’altro, un già visto che però ci fa soffermare: ne vale la pena.
Ci si sente pronti, chissà come, a comunicare vicinanza. E c’è anche il piacere di aver conosciuto cose nuove a cui dare parola, col racconto e l’ascolto reciproco.
Sentirsi provocati a scrivere somiglia molto ad accorgersi che stiamo cercando le parole della saggezza, come quando stiamo parlando con una persona e intanto allarghiamo reciprocamente pensieri e scoperte. Siamo in un rapporto vivo.
Spesso, perciò, non siamo restii a chiamare “grazia”, “dono inaspettato” o “illuminazione” quello spunto (quasi piovuto dal cielo) per soprassedere, rinviare, allontanare l’invito a scendere da un treno confermatosi inadatto al nostro viaggio: troppo veloce, troppe gallerie, troppo affollato.
Troppo triste, per contro, il percorso di chi a lungo non ne sperimenta più il beneficio, neanche nella memoria.